domenica 4 novembre 2007

L'Islam cerca il dialogo ma non condanna il terrorismo

di Francesco Pugliarello

Nulla di particolarmente degno di interesse nella lettera dei 138 saggi musulmani del 13 ottobre indirizzata al Papa ed ai Capi cristiani diffusi nel mondo. Le solite sdolcinatezze tese alla “captatio benevolentiae”, cioè la consueta tattica del bastone e della carota in cui gli islamici sono grandi maestri. Unica nota positiva è quella di veder condivisa una prospettiva di confronto multilaterale tra sunniti, sciiti e sette di tendenze divergenti che per secoli si sono combattuti tra loro per la conquista del “Daar-al Harb”, di una civiltà come la nostra: una sorta di armistizio in una fase storica molto delicata per i destini del mondo.


Il documento, pur ispirandosi a principii di ordine religioso, assume un valore prevalentemente etico e politico dal momento che viene sottoscritto da un gran numero di studiosi e di consulenti appartenenti a ben 43 Stati a maggioranza islamica e promosso da un sovrano illuminato come il re di Giordania, alleato degli USA e di Israele. Sebbene indirizzata alla cristianità, la lettera è multifronte, nel senso che è un monito lanciato a tutti i fondamentalismi religiosi, a quelli cioè “che provano piacere nel conflitto e nella distruzione mettendo in gioco la stessa sopravvivenza del mondo”.


Non v’è dubbio che questa lettera è permeata da un malcelato timore di un incombente conflitto laddove invoca: “….facciamo almeno in modo che le nostre differenze non provochino odio e conflitti tra noi che rappresentiamo il 55% della popolazione di questa terra” (Capo III). Ma non si capisce se questo appello all’unitarietà sia indirettamente indirizzata a contrastare la corrente religiosa wahabo-salafita - quella che sparge terrore nel mondo - oppure è un messaggio trasversale rivolto all’Occidente quando denuncia che tutto potrà andare come previsto “…a condizione che i cristiani non dichiarino la guerra”.


Richiamando per analogia le citazioni degli evangelisti e delle sure coraniche del periodo meccano che figurano nella “Sura della tavola imbandita”, laddove intendono che “le nostre diversità sono volute dall’unico Dio”, essi sostengono con forza che “è possibile una convivenza nella diversità”, sottraendosi cautamente nel tracciare quanto meno delle proposte concrete. Una rivoluzione copernicana di un buonismo stucchevole che mette in guardia i nostri massimi cultori dell’islam come Magdi Allam, Lee Harris e Carlo Panella, avvertendoci che il documento può essere una “trappola” o peggio un “falso ideologico”, dal momento che tacciono sul resto dei passaggi coranici più controversi, specialmente quelli riferiti al periodo medinese, dopo l’”egira”. Difatti fra tanta deferenza stridono le firme di alcuni antisemiti come Yasser Ahmed al Tayeb, rettore dell’università al Hazar del Cairo, o come Ahmed al Kubaisi, ex consigliere di Saddam Hussein, che sostengono apertamente le azioni di martirio, tacendo che la guerra all’Occidente è già stata dichiarata dal fondamentalismo maturato in seno alla loro civiltà.


Per questa ragione i nostri critici, la considerano una spudorata dissimulazione per la retorica di cui è intrisa e per le forti ambiguità. Come ci fa notare l’arabista Samir Khalil Samir, le maggiori ambiguità si riscontrano in alcuni passi tradotti dall’arabo alle nostre lingue. Fra le tante, sicuramente la più inquietante, riscontrata peraltro anche dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, mentre il testo arabo si richiama al Nuovo Testamento, nelle nostre lingue viene tradotto in “Bibbia”, lasciando intendere agli interlocutori arabi di aver escluso la realtà ebraica che in questo momento storico invece è centrale. Samir ci riferisce inoltre che nelle nostre versioni (inglese, francese, italiano e tedesco) si cita genericamente Gesù Cristo, mentre nel testo originale si insiste nel considerarLo non figlio di Dio ma il Messia, “Issa al Massih”. Stesso peso lo si riscontra nelle affermazioni “come si legge nel Vangelo…”, mentre, citando il Corano, essi scrivono “Dio ha detto …”. Infine, per sostenere l’unicità di Dio, che tale è nella visione islamica, mettono ancora una volta in discussione la validità dei testi di San Paolo allorché, introducendo la Trinità divina, avrebbe violato il messaggio originale cristiano.


Da queste brevi considerazioni, la disperata ricerca di un dialogo testimonia le insormontabili difficoltà interne in cui si dibatte l’islam a causa di elementi spuri che negli ultimi decenni, sfruttando la superstizione e la fede, dopo qualche secolo di splendore, avrebbero mutato radicalmente tutta l’impalcatura coranica su cui per millenni si è fondata una religione che, all’impatto con la modernità, non è stata in grado di trovare alcuna via d’uscita dalla tribalità in cui si era cacciata. In buona sostanza questo documento rappresenta una invocazione di aiuto, ancora una volta però privo del coraggio di denunciare i loro assassini.


Ciononostante, considerato lo sforzo profuso per un confronto, a fronte dei tanti intrapresi dalla cristianità, il documento potrebbe anche essere accolto, a condizione che si prendano di petto le questioni concrete, della libertà religiosa, del rispetto assoluto dei diritti umani, del rapporto tra religione e politica e dell’uso della violenza, non dimenticando mai le lezioni della storia e cercando si evitare atteggiamenti aggressivi che possano provocare le reazioni negative degli islamisti: la scaltrezza e la suscettibilità di quella gente non ha pari in tutto il mondo.

da: L'Occidentale.it

03 Novembre 2007 | cattolicesimo | cristianesimo | islam | occidente | wahabismo | Religione

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