martedì 7 dicembre 2010

Chi è il down oggi?

Nessuna famiglia può appendere il cartello
“Qui non ci sono problemi"



In un tempo caratterizzato da profondi mutamenti culturali in cui tutti si confessano pubblicamente, mettendo a nudo il proprio passato, i sentimenti, le emozioni anch’io ho sentito il bisogno di rendere pubblica una testimonianza di vita vissuta con un figlio ‘speciale’. Lo faccio con il pudore di padre colpito nell’intimo da un evento che sconvolge nel veder nascere una creatura considerata ‘non normale’.

Descrivere cosa significa essere genitore di un ragazzo down non è facile perché spesso si scivola tra il pietismo e l’esaltazione che non aiutano a comprendere.

Chi ha di questi figli sa che si parla di persone meravigliose, tra loro eterogenee, che ragionano col cuore e al cuore, talvolta difficili da capire e da gestire, anche perché condizionati dall’impulsività genitoriale. Chi ha vissuto a lungo con loro ha alle spalle esperienze di vita che arricchiscono e di cui non potrà più farne a meno; sa che quando rivolgi loro uno sguardo, una parola o un sorriso te li restituiscono ingigantiti, sa che non conoscono la malizia e la cattiveria. Nondimeno chi ha avuto contatti con questi ragazzi, anche brevi, ne sente la mancanza perché è stato contagiato dall’Amore, quello vero, quello puro, quello che fa sentire l’impulso di testimoniare un sentimento che purtroppo sta divenendo sempre più raro.

Negli ultimi tempi si è scritto abbastanza sulle barriere associate al ritardo mentale, sul modo di affrontarle e abbatterle. Non ci si è però soffermati, se non marginalmente, su come un genitore, un parente, la società vivono questo cruccio relativamente al contesto emotivo del soggetto affetto da sindrome di Down e su come il soggetto medesimo vive questo disagio. La scarsa diffusione e talvolta poco accessibile letteratura in merito impongono un tipo di ragionamento che va per tentativi.

E’ sempre un insuccesso concepire un handicappato, una provocazione della natura che procura un sordo dolore periodicamente riaffiorante nella madre per un senso d’inefficienza, e nel padre per una ferita narcisista. Questi sentimenti li ritroviamo ben scolpiti e documentati in chi riesce a esprimerli, come certi personaggi più dotati colpiti da questo evento che hanno accolto figli disabili, anche con sofferenza, come il filosofo Emmanuel Mounier e lo scrittore Ennio Flaiano.

La venuta di un disabile ti sconvolge l’esistenza; con te padre e con te madre gli altri cambiano registro, ti riservano un comportamento diverso perché per loro sei un ‘diverso’, come tuo figlio, perché ritenuti persone scomode; perché sei la pietra di paragone delle sue certezze, ti osservano e ti considerano come uno da assistere, da compatire, da mettere da parte “perché,…chiuso nella sicurezza del tuo essere normale, sei cieco di fronte alla precarietà della vita, hai paura di immergerti, la guardi in uno specchio che ti seleziona le immagini in modo da non esserne turbato” – è la denuncia che un giorno lanciò Giulia Basano nei confronti della società quando adottò un disabile, “Nicola, un’adozione coraggiosa”-. E’ una situazione imbarazzante che devi affrontare creandoti un nuovo orizzonte sociale, magari più ristretto, più concreto, comunque diverso dal comune sentire. Flaiano invoca il miracolo per riuscire ad amare la sua Luisa, malata di encefalite subito dopo la nascita, Mounier, considera la nascita della figlia Francesca un dono inviato dal Cielo che traccia la via per il paradiso, qualche altro ancora si rinchiude in se stesso fino a logorarsi nella nevrosi: queste nascite sono sempre e comunque un evento che ti afferra per i capelli e ti proietta in un altro mondo.

Essere sani, belli, tonici, senza grassi né cellulite può essere utile ad uno specchio ma non a una società sempre più povera di verità e di calore umano: sentimenti, questi ultimi, troppe volte confusi con il culto del forte e dell’intelligente ed in cui il ‘diverso’, in certi contesti, è condannato all’isolamento sociale. Siamo stati abituati a considerare i down persone non normali, in quanto partiamo dal presupposto che ciò che noi intendiamo essere normalità sia il metro di valutazione universale. Una convinzione che costringe questi ragazzi ad essere e rimanere come sono percepiti nel nostro immaginario, aspettandoci che facciano cose da down. Poiché essi hanno aspetto, comportamenti e atteggiamenti diversi da chi vive un’esistenza ‘normale’, li incaselliamo e adottiamo nei loro confronti stupide convenzioni comportamentali che non li aiuta a crescere, ma soprattutto, non aiuta noi.

Cominciamo intanto a pensare che il down non è molto diverso dagli altri, che ha problemi esistenziali come chiunque e che il grado di ritardo mentale non sempre dipende dal tipo di trisomia quanto dall’ambiente, dal clima familiare, dalle sue attività e dunque dalla qualità della sua vita; cominciamo anche a sfatare il luogo comune secondo cui egli sia una persona felice perché mostra disinvoltura e allegria. Non sempre è così. Quando diventa adulto, si pone domande come qualunque persona consapevole; riflette sul suo futuro ma non sa progettarlo perché è per natura tributario di chi gli sta accanto e tale potrebbe restare, in balia di chi deciderà per lui con le sue ansie: non riesce a decifrarle o, per non tubarci, le camuffa. Egli saprà soltanto accettare o rifiutare quanto gli si propone, sta a noi capirlo, tenendo presente che in questa figura si condensa la fragilità e la resistenza dell’essere umano. Diventa pertanto nostro dovere sentire l’obbligo morale di ricambiare l’affetto che egli ci offre senza la pretesa di un tornaconto, perché ha bisogno di noi e non riuscirà mai a serbare rancore, nemmeno se riceverà delle contrarietà. In questo, forse solo in questo, è diverso da noi.

da "Lo specchio nascosto" (in rielaborazione radicale)