mercoledì 7 gennaio 2015

La fonte del jihadismo di esportazione

Tra le tante ipotesi messe in campo circa le strategie di reclutamento e di conversione all’Islam fondamentalista di individui da essere successivamente inseriti nei gangli della società occidentale o inviati in zone cosiddette “calde” (oggi Iraq e Nigeria), possiamo riferirci a uno studio del fenomeno francese che risulta il maggiore “esportatore” di elementi jihadisti dell’Occidente. In un interessante articolo apparso su Le Monde qualche anno fa lo studioso Piotr Smolar descriveva con dovizia di particolari il fascino che l’Islam esercitava (e tutt’oggi esercita) su una parte dei giovani francesi. In Occidente e non solo, le conversioni alla fede musulmana, paradossalmente sono aumentate negli ultimi decenni, paradossalmente a seguito del famoso 11 settembre del 2001, dovuto ad un risveglio del proselitismo attinto fra le masse delinquenziali. Secondo un dettagliato rapporto della Polizia di Stato francese, da quell’evento di inaudita violenza, i legami con elementi del radicalismo islamico sono cresciuti vertiginosamente attestandosi nelle periferie cittadine. Il reclutamento maggiore e quindi la conversione-alla-nuova-fede-ortodossa-islamica avviene prevalentemente in carcere, dove questi piccoli delinquenti si associano ai più scaltri, magari più istruiti, nel pretendere dei privilegi riservati ai musulmani da alcune delibere governative come l’allestimento di sale di preghiera, preferenza di pasti halal o altre facilitazioni… Una volta in libertà, una parte di questi convertiti vengono integrati nelle strutture di sostegno logistico dei gruppi islamici o magari avviati “in posti altamente sensibili come aeroporti, centralini telefonici e quant’altro”. Oppure attraverso la ricerca di un lavoro tramite gli internet-point: un mezzo che in Francia è molto diffuso. Molti di essi trovano lavoro in punti vendita “halal”, il cui commercio permette spesso di ripulire il denaro sporco, come la mafia utilizza le catene di pizzerie. Gran parte delle prede francesi che si “inchinano” davanti alle blandizie che ricevono da questi “benefattori”, riferisce l’inchiesta, provengono dai suburbi dove il più delle volte vivono a contatto con le comunità delle ex colonie magrebine che, col pretesto dell’offerta di un facile guadagno o di un posto di lavoro, abboccano. E’ la zona mediterranea dove è più spiccata la tecnica della “tqiyya” (dissimulazione), ossia degli individui senza scrupoli che, avendo vissuto una vita di espedienti, sanno camuffare bene le loro intenzioni presentandosi come persone per bene in grado di venirti incontro. Questo atteggiamento è tipico del movimento “salafita” che per un emigrante di seconda o di terza generazione non viene percepito come francese dai francesi, ma nemmeno come arabo dagli arabi: la sua identità rimane incerta, indefinita. Il Salafismo, di ispirazione fondamentalmente atea che predica l’internazionalismo integralista (da contrapporre allo sciismo, da cui prende le mosse l’attuale wahabismo vicino ai “Fratelli Musulmani”), invece offre loro un’identità decontestualizzata nel tempo e nello spazio. Un salafita, sostiene il professor D’Atri, vive in una specie di patria ideale senza confini, “non ha tradizioni né patria né tempo”. E’ quindi un’ identità particolarmente adatta per chi non riesce più a riconoscersi in nessuna patria e in nessuna tradizione. Insomma un coacervo di devianza che sfocia in rivolte contro l’ordine costituito. Così nella precarietà sociale delle immigrazioni successive l’Islam fondamentalista riesce ad attinge il suo alimento per rafforzarsi e destabilizzare le istituzioni. Francesco Pugliarello