mercoledì 1 aprile 2009

SCALFARI ALLE CORDE

SCALFARI ALLE CORDE

di Gianni Baget Bozzo
bagetbozzo@ragionpolitica.it


«Meno male che c'è Fini», scrive Eugenio Scalfari. Non avevo mai immaginato di leggere una simile affermazione nella prosa del fondatore di Repubblica. Il presidente della Camera non è mai stato un allievo di Scalfari, non ha mai beneficiato della sua attenzione. Ora basta che Fini prenda qualche distanza da Berlusconi sul testamento biologico e sul referendum per pensare che egli rappresenti l'alternativa democratica a chi viene rappresentato a volte sotto il segno del nulla, a volte sotto il segno del male. Ma, ridotto ad elogiare Gianfranco Fini, il fondatore di Repubblica mostra il fallimento della sua opera, che aveva avuto tanto successo nell'indottrinare il pubblico italiano all'egemonia della sinistra postcomunista come chiave della democrazia. Non è solo una sconfitta politica, ma è una sconfitta culturale, perché vuol dire che è fuori della cultura di Repubblica e della politica di sinistra l'unica alternativa a Berlusconi oggi esistente. Ed è Scalfari a crearla, quando essa nella realtà non esiste: Gianfranco Fini può pensare di essere il successore di Berlusconi, non la sua alternativa.

Ma vi è di più in questa scelta di Scalfari di continuare, in queste condizioni, a delegittimare Berlusconi. Ciò significa delegittimare la democrazia italiana, indicare che essa è già vicino al para-fascismo in forme demitizzate. Insomma, significa che il popolo non è democratico. La democrazia non ha più seguito elettorale. Ma Scalfari non sceglie l'Aventino e Repubblica continua ad avere successo. La democrazia non conosce ostacoli. Berlusconi governa con il consenso e il Popolo della Libertà contiene molte voci ma nessuna alternativa. Scalfari, che ha concentrato su di sé la direzione della politica italiana in chiave culturale, non deve meravigliarsi che un popolo da lui sempre disprezzato si raccolga attorno a un volto in cui ha scelto di ritrovarsi. Perché Repubblica giunge a delegittimare la democrazia italiana nel suo elettorato e nelle sue scelte? Il laicismo italiano ha sempre considerato il nostro popolo come alienato dalla cultura cattolica e quindi alieno all'Occidente e redento soltanto da élites culturali non cattoliche che si sottraevano, con la loro opposizione alla Chiesa, al peccato originale del popolo italiano: il suo cattolicesimo popolare.

Ora la democrazia italiana si raccoglie attorno all'identità di un partito che potremmo chiamare nazionale e popolare, anche se nazionale e popolare, nella cultura laicista, è tradotto come populismo, cioè in chiave di disprezzo del popolo e di chi esso esprime. Può la sinistra sottrarsi al fascino di questa scomunica della democrazia italiana, che significa la sconfitta storica della politica di sinistra, la dichiarazione che essa non è più un'alternativa? Può la sinistra essere organica alla cultura laicista che condanna nella vittoria di Berlusconi la dimensione popolare della politica italiana? Ciò non toglie il fatto che il nuovo partito appaia come una forza nazionale e popolare e che abbia già una classe dirigente di governo capace di affrontare la crisi del sistema economico mondiale. E la sinistra non fa parte di essa. È ridotta a manifestare con la Cgil e con l'Onda studentesca. Ciò significa chiamarsi fuori dalla società e dalla storia. È lecito sperare che la sinistra italiana possa giungere a pensare diversamente del fondatore di Repubblica e a comprendere che egli è stato un cattivo maestro.

(da Il Giornale del 31 marzo 2009)

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