martedì 4 dicembre 2007

Il primo "sessantotto": amore e femminismo

Ulteriori riflessioni e nuovi contributi

Posso solo immaginare quali sensazioni ha potuto suscitare nella gente veder sfilare migliaia di donne e qualche uomo nella tanto discussa manifestazione di Roma contro la violenza alle donne. Credo che in alcuni ha evocato squarci di vita vissuta di un’epoca che, per ragioni anagrafiche, quei giovani partecipanti non conoscono direttamente ma noto sotto i termini di “contestazione sessantottina”. Per me, che nell’autunno del fatidico 1968 ero studente-lavoratore, la sensazione immediata è stata la lunga occupazione dell’Ateneo che mi costrinse a ritardare di un anno la discussione della tesi. Ma il tempo ha sanato i fatti sgradevoli lasciando riaffiorare i momenti più gratificanti.

Ricordo che nell’atrio dell’ateneo era stato portato un vecchio ciclostile attorno al quale gruppi di colleghi, rigorosamente in eskimo e scarponcini, a turno, preparavano “l’arma segreta dell’agitazione” stampando migliaia di volantini che successivamente servirono a redigere le famose “tesi” da distribuire in piazza, poi riportate in parte nei famosi “Quaderni Piacentini”. Questo compito meramente esecutivo, ma gratificante, venne affidato alle donne: le eroine del ’68 che coralmente chiamammo “gli angeli del ciclostile”. Ai piani superiori si tenevano assemblee fiume in cui si parlava dell’universo mondo: passi ripresi a memoria da alcuni testi della scuola di Francoforte e dell’idolo del momento, Herbert Marcuse, “l’uomo a una dimensione”, in cui si metteva sotto accusa la società… mai letti integralmente. Ricordo tanto esercizio di retorica e di enfasi in quelle frasi sconnesse, espresse con veemenza, talvolta con rabbia, infarcite da migliaia di "cioè" che incitavano alla violenza, alla prevaricazione, alla conquista del mondo, della femmina, della strada, della libertà. Un puro e semplice antagonismo contro le strutture sociali dei decenni precedenti che, secondo molti osservatori, si serviva delle rielaborazioni di vecchie ideologie ottocentesche, perciò prive di nuove proposte politiche. Ciononostante è stato un periodo esaltante per chiunque, anche per chi non l’ha vissuto dall’interno quel movimento, tanto da marcare profondamente la storia politica e sociale successiva.

Di seguito la testimonianza di una “vecchia” compagna, Rossella: “Abbiamo sognato e la forza del sogno ci è rimasta dentro, anche ora che siamo svegli. Abbiamo avuto il coraggio di abbandonare la strada vecchia senza sapere minimamente come costruire la nuova, ma ci abbiamo provato ed ancora non ci siamo rassegnate”. “…abbiamo vissuto la primavera del cuore ed abbiamo sfidato il mondo a viso aperto. Ho scoperto, avendo un figlio di 20 anni, quanto è difficile raccontare il 68 a chi non lo ha vissuto”. “I fatti sono poca cosa in confronto ai sentimenti, le emozioni, l'esaltazione e la paura, la grinta e l'istinto di sopravvivenza. Noi donne dovevamo combattere su più fronti, spesso al fianco e contro i nostri stessi compagni”. “Ogni giorno, andando in facoltà, avevi la consapevolezza che potevi non tornare a casa, potevi passare la notte in galera o in un ospedale. Eppure ti armavi di coraggio e andavi a combattere la tua guerra, sapendo di essere nell'ombelico del mondo e che stavi scrivendo una pagina della storia, non solo italiana, ma universale. Sapevi di far parte di un girotondo planetario e le tue mani si univano aquelle di tutti i ragazzi del mondo. Come si fa a spiegare tutto questo ai nostri figli?”

Successivamente, nel 1976, in memoria di quei giorni, Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, due giovani intellettuali di sinistra, pubblicano per la Savelli un libro provocatorio a sfondo sessuo-politico dal titolo “Porci con le ali”: una sorta di diario a quattro mani di due adolescenti che si incontrano, si amano, poi si lasciano per ritrovarsi in una delle tante manifestazioni “di sangue” negli anni settanta, divenuto immediatamente un caso letterario e cinematografico, apprezzato dai giovani dell'epoca e salutato con entusiasmo dai critici. Oggi l’autrice giudica il suo romanzo “una prova dei nervi e dell'equilibrio, del tasso di autostima, della modestia e dell'ambizione”, sensazioni di onnipotenza e di debolezza che sorreggevano noi giovani di quell’epoca. Alcuni sostengono che questo è un libro che abbatte i miti: “in primis, quello del maschio forte a tutti i costi, che non potrebbe star male per una donna che lo rifiuta, ma anche quello del femminismo esasperato, che in realtà genera egocentrismo e soprattutto solitudine”. Probabilmente è quanto è successo nella manifestazione di quel sabato di novembre a Roma in cui convivevano istinto e sentimenti nobili, gli stessi che provammo noi genitori in quel lontano millenovecentosessantotto. Taluni vedono quel periodo come un tragico imbroglio, tal’altri la vera liberazione dallo schiavismo politico e sociale, io lo vedo come il momento più esaltante della nostra esistenza che nel tempo è degenerato in vecchi rottami che si riparano sotto la lugubre ombra dell’integralismo islamico: estremo, sanguinario rifugio di tutte le ideologie dell’odio e della massificazione.

A quel tempo mi interessava solo crescere e in fretta, studiare, scoprire la mia identità, trovare il mio equilibrio nel rapporto con chi dell’altro sesso volesse condividere l’angoscia adolescenziale. Il primo interesse degli “arringatori di turno” era farsi notare dalle ragazze per fare “movimento”. Fuori, sotto le finestre dell’università le mattine seguenti, si potevano rinvenire decine di preservativi, simboli delle notti d’amore trascorse dai compagni asserragliati all’interno dell’ateneo. Inizialmente per molti di noi era questo il miglior diletto e lo scopo del movimento, dove, “fare movimento”, almeno a Napoli, si intende fare all’amore. Un’orgia di sesso e di idee in cui il maschio e la femmina denudavano la loro anima al cospetto dell’altro/a, non solo per la ricerca del piacere ma principalmente per conoscersi, per scoprire che in fondo cercavamo la stessa cosa: liberarci dal giogo che la famiglia e la società ci avevano cucito addosso. In quel tripudio giovanile scoprimmo che la donna era allo stesso tempo Angelo e Demonio e l’equilibrio poteva ritrovarsi unicamente nell’armonia dei contrasti. Oggi però i termini equilibrio e “identità” sono parole che a molti non piacciono, soprattutto a coloro che di quel periodo hanno assorbito la mentalità del pensiero debole, secondo cui “non bisogna parlare né di identità dell’io o del soggetto umano, né di identità italiana, né di identità europea o di identità occidentale, né di identità cristiana, né di qualsivoglia identità”.

Di quelle gratificanti esperienze sono rimaste le ambizioni di certe femministe che, appiattite su istanze antagoniste hanno ridotto la figura femminile a mero oggetto di seduzione. Al rapporto impostato sul consenso in quel movimento studentesco, è subentrato quello fondato sulla violenza e sulla prevaricazione: più o meno quanto in certi momenti abbiamo rivissuto in quel pomeriggio di sabato 24 novembre. Una manifestazione femminista, bella, pacifica, gioiosa ed anche commovente, che certi post-sessantottini, oggi al potere, nel tentativo di oscurare la rinascita di un movimento più maturo e con la complicità dei giornali e della TV hanno tentato cinicamente di "mettere il cappello" su una tematica che nel tempo avevano fatto incancrenire, avallando un’immagine distorta della realtà femminile. Quel gesto, tipico di certe culture minoritarie estreme, ha rivelato tutto il bagaglio autoritario che, come afferma Lidia Ravera, già serpeggiava nel coacervo di emozioni viscerali dei giovani del 68, poi incarnato in un femminismo sfrenato che intende riaffermare l’emarginazione sessista e la differenza di genere.

Francesco Pugliarello

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