domenica 25 marzo 2007

Benedetto XVI e la sua tenacia nella ricerca di dialogo con l'Islam

Il colonialismo e le guerre del secolo scorso culminate con la shohà hanno scosso le coscienze degli europei assumendo su di sé un senso di colpa collettiva accompagnata da un diffuso affievolimento spirituale. L’arricchimento dei “signori del petrolio” e la tecnologia indiscriminata, hanno finito per spazzare via quel residuo di valori condivisi che nel tempo si erano radicati nella coscienza delle nostre comunità, al punto da far esprimere all’Islam: avete visto? Voi siete i corrotti; noi siamo i migliori; ora dovete venire a patti con noi perché siamo noi che conserviamo una identità religiosa dell’esistenza; voi siete gli infedeli e noi vi correggeremo. Rendendolo laico, questo potrebbe essere sostanzialmente il pensiero Papa Benedetto XVI, quando parlando di relativismo valoriale ci richiama al rispetto della tradizione e alla difesa della nostra identità cristiana. Lo ribadisce in ogni occasione. Anche ieri l'altro, nel corso dell'udienza in Vaticano ai partecipanti al congresso per i 50 anni dei Trattati di Roma sul tema “Valori e prospettive per l'Europa di domani''. Egli ha tenuto a riaffermare che l’Europa è destinata ad uscire dalla storia se dimentica le sue radici cristiane. Questo forte monito non deve meravigliarci. Ratzinger è un uomo di fede che vive intensamente il nostro tempo per cui, nella sua missione apostolica, riesce a coglierne intimamente i risvolti. Il Suo “manifesto pontificale” era già tracciato da tempo e reso pubblico, sia in una famosa intervista con Peter Seewald, Edizioni San Paolo ne “Il sale della terra, cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo”, sia nel convegno di Cracovia sulla “Nuova evangelizzazione” (2005).
A seguito dell’ “insurrezione islamica” seguita alla lectio di Ratisbona, lo vediamo esprimere tutta la sua amarezza e la pietà per le minoranze cristiane vessate e perseguitate in ogni angolo della Terra dove è preclusa ogni libertà di espressione. Ma ormai le sue direttrici pastorali sono ben definite: da un lato irrobustire e difendere con la parola la fede in Cristo, e dall’altro cercare di superare le difficoltà di proseguire quel ponte di dialogo che Papa Giovanni Paolo II aveva intrapreso col mondo islamico. Un mondo diviso in mille correnti e fazioni, ideologicamente e politicamente contrapposte, in cui è impossibile individuare un referente unico. E’ appena il caso citare la corrente maggioritaria riferita all’organizzazione dei Fratelli Musulmani (al momento Al-Qaradawi): rappresentante “spirituale” delle masse diseredate sparse tra il miliardo e più di musulmani. Ma questo è l’islam fondamentalista, legato al terrorismo internazionale. Non ultimo cruccio è il contrasto interno che proviene dalle gerarchie ecclesiastiche che vivono nei Paesi musulmani alla ricerca di una pacifica convivenza. Si tratta di una sfida complessa, difficile e molto diversificata perché riferito a religioni in concorrenza tra loro che, per effetto della globalizzazione, ognuna di esse ha la pretesa di validità sull’altra. Tuttavia questa scelta è irreversibile ed impellente.
Rileggendo la lectio di Ratisbona, in filigrana traspaiono le forti difficoltà che questo pontificato deve superare, manifestatesi in un duplice aspetto: nell’ “annuncio” e nel “dialogo”, dove il primo è la proposta forte di richiesta di recupero dei valori fondanti la cristianità, edificata sulla parola divina, quale emerge dai testi sacri. Con la saldezza teologica del teutonico e la serafica apertura agli altri, Benedetto XVI ci ripropone un Dio stimolante che si rivela all’uomo con le sue stesse debolezze in attesa di essere scoperto attraverso l’uso della ragione e dell’amore verso gli altri, contrapposto alla visione musulmana di un Dio occulto ma incombente, riconosciuto solo attraverso le scritture e con cui il singolo non può e non sa dialogare perché lontano e invisibile. L’islam può entrare nella modernità solo quando il Corano verrà reinterpretato. Alla luce delle frasi del Pontefice il linguaggio dell’Islam ci appare ermetico, ripetitivo, quasi segreto, comprensibile solo a pochi eletti: è sì un linguaggio poetico, ma mitologico e pervasivo che impregna di sé tutta la sfera vitale della umma. Un linguaggio zeppo di contraddizioni, fermo nel tempo e “non sorprende, che per il rischio di ricatti o di minacce, alcuni commenti testuali sono pubblicati sotto degli pseudonimi” (Gorge Pell). Pertanto la capacità di rinnovamento è assai limitata ed improbabile (se non in una possibile implosione). Purtuttavia è una religione viva e molto seguita. Ma Ratzinger non crede nel suo rinnovamento, in funzione del fatto che la Parola che Dio ha dato a Maometto è parola eterna, mentre la nostra è diversa perché è Dio che si serve degli uomini per diffondere il Verbo interpretandolo e adattandolo alle mutate situazioni. Inoltre va ricordato che la rigidità lessicale coranica è il pensiero che ha forgiato la taqiyya (strategia di penetrazione), della dissimulazione o del doppio linguaggio; uno per l’interno della congrega, un altro per l’esterno che pone la difficile ricerca di interlocutori con cui instaurare un dialogo concreto: una trappola collaudata nei secoli dalla corrente sciita. Egli sa benissimo che affinché un dialogo sia fruttuoso occorre che chi vi partecipa rispetti scrupolosamente la verità; e nel problema del rapporto tra islam e Occidente “la posta in gioco è troppo alta per equivocare sui fondamenti” (M.Introvigne).
Posto in questi termini è difficile, per non dire impossibile, intavolare un dialogo con le Istituzioni islamiche, ma Ratzinger è tenace, ci prova, rischiando di persona: si presenta in casa loro (ad Istambul) con l’umiltà dell’uomo di fede.
Il Papa non demorde, usando i media come il suo predecessore, ripresenta la Sua teologia sempre più incalzante e concreta che a molti può apparire conservatrice. Così dev’essere se si vuole spezzare quel muro di buonismo e di lassismo che dilaga nel vecchio Continente e se si vuole veicolare un dialogo con quel mondo fluido, sfuggente che dice e non dice e se dice subito smentisce. Purtroppo quello islamico non è il mondo laico, razionale, dubbioso, ma macchinoso, machiavellico ancorché fantasioso che schiva e teme la verità. Chi ha vissuto tra loro, non singolarmente, ma in comunità, sa che non è un mondo del si o del no, ma del ni perché insicuro, timido al dialogo aperto, suscettibile alla critica. Il Papa sa benissimo che la prima condizione per una apertura al diverso occorre trovare dei punti di intesa, e pertanto la prima condizione è il rafforzamento delle propria identità da svelare all’altro, anche quella che può disturbarlo. Perciò ridurre lo spessore della propria fede per non offendere l’altro non farebbe che confermare nell’altro la nostra insicurezza: “per i seguaci di Maometto questo significherebbe una sorta di resa, di abdicazione alla propria fede ed un implicito riconoscimento della superiorità dell’Islam” (Samir Khalil).
Se solo pensassimo alle umiliazioni ed alle torture subite durante la conquista dei popoli iberici e balcanici (avvenuta non sempre con la spada), ridotti a dhimmitudine e con quale e quanta arroganza trattano i nostri rappresentanti istituzionali, poco avremmo da consolarci sul nostro futuro. Al momento non abbiamo che affidarci alla secolare saggezza della nostra Chiesa. Se viceversa accettassimo il principio della legge islamica secondo cui è impedito di pronunciarci sulla sharia, “allora saremo davvero sulla strada che ci condurrà verso la loro sottomissione” (Daniel Pipes): questo potrà avvenire fintanto che in Occidente continueremo a non mostrare compattezza con la gerarchia ecclesiastica.

Francesco Pugliarello

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